LA MIA PARANZA – PRESENTAZIONE DI PADRE ERNESTO.

 

Padre Santucci nel video presenta il suo libro “La mia paranza” che ha scritto in risonanza con lo scrittore Roberto Saviano. Saviano ha trattato il tema dei ragazzi malavitosi napoletani  in un romanzo intitolato “La paranza dei bambini”, nel quale descrive situazioni senza scampo, ragazzi destinati ad un futuro nefasto, senza speranza.

 

Padre Santucci non poteva tollerare l’idea che non vi sia speranza… E, battagliero come sempre, contrappone alla finzione pessimista e disincantata del romanzo, la sua decennale esperienza nei quartieri spagnoli, a contatto diretto con i mariuoli dei suoi tempi. Racconta successi e insuccessi, gioie e dolori ma traccia una via fatta di incrollabile speranza, come dev’essere per un cristiano…

 

https://youtu.be/B5k4tU-PRr0?si=GmT8-HPYhT4vDf31

LA MIA PARANZA

PREMESSA

 

Qualche tempo fa ho avuto modo di leggere il romanzo di Roberto Saviano “La paranza dei bambini”. È stata una lettura sconvolgente. Non riuscivo ad accettare quella realtà descritta con tanta crudezza. Le avventure di Nicolas e della sua paranza provocavano in me disgusto e tristezza. Possibile che Napoli si sia ridotta ad avere adolescenti tanto cattivi e freddi?  Mi venivano in mente le parole della celebre canzone “Monastero ‘e Santa Chiara”, quando l'autore esclama amareggiato “No, non è ‘o vero, no, non ci credo”. E la mia memoria ritornava indietro nel tempo...

Erano gli anni 70/80 quando cominciai ad interessarmi della delinquenza minorile a Napoli con la visitazione assidua del Carcere Minorile “Filangieri” e con la creazione di una piccola comunità alloggio dove, per circa dieci anni, ho ospitato giovani con ogni genere di problemi. Erano ragazzi tutto sommato semplici, genuini, quasi sempre provenienti da famiglie più o meno dissestate. Le loro malefatte arrivavano al massimo agli scippi, a qualche tentata rapina, e si servivano, come arma, di qualche “molletta”. E mi domando: Possibile che dopo pochi anni possa essersi realizzata una “escalation” così violenta?

Sono andato a ripescare quello che scrivevo in quegli anni e ho riletto quelle pagine. È stato come svolgere un gomitolo formato da tanti fili, ognuno di un colore diverso, che si spezzavano e si riannodavano, formando tante storie, l'una diversa dall'altra, ma sempre con il sottofondo comune di una estrema povertà. Ma allora non c’era un “animus” cattivo e incattivito. Si rubava, ci si prostituiva, solo per sopravvivere e si accettava con gioia una mano disinteressata che offriva la possibilità di una scelta di vita diversa, capace di toglierli dalla strada, di dare amicizia, di sensibilizzarli dando loro la possibilità di scegliere un’alternativa a quella di vivere alla giornata.

Ma oggi i giovani, probabilmente, vivono in un'altra atmosfera, in modo completamente diverso. Saviano ce li descrive avidi di denaro, di potere, di sesso facile. C’è, effettivamente, una fascia che cede al fatto di avere tutto e subito, di sentirsi potente solo perché si possiede un’arma capace di intimorire e di uccidere. Giovani con una visione del mondo molto terra terra, vogliosi di bruciare le loro giovani vite, incapaci di pensare a qualcosa che non sia solo ed esclusivamente materia. Il sovrannaturale per loro non esiste, è inutile. Vite bruciate che fanno paura.

Proprio per questo penso sia utile fare un confronto con la mia esperienza decennale a contatto con giovani provenienti dai Quartieri Spagnoli e da varie parti della periferia napoletana. Ho iniziato a mettere su carta i miei pensieri dal 19 marzo del 1973, e, via via, fino all'ottobre del 1982.  Sono notazioni che si alternano con articoli pubblicati su vari giornali e che formano un tutt’uno nel mio libro “Napoli: i piedi sulla città”, edito nel 1988 e ormai introvabile. Si intrecciano le storie di tanti ragazzi, alcune appena accennate, altre portate avanti per anni. Ancora oggi ho tanti volti e tanti nomi nella mia memoria: Gaetano, Lucio, Marcello, Aldo, Alfonso, Giovanni... Una litania lunghissima e dietro ognuno di loro una storia, quasi sempre la stessa, anche se con tante sfaccettature diverse. Storie di scippi e di arresti, storie di violenze e di prostituzione, storie di carenze affettive e di tentativi di suicidio... Di molti di essi ho perso le tracce, svaniti nel nulla, altri sono morti, altri ancora, dopo molti anni, si sono fatti vivi tramite Facebook e ho avuto la gioia di sapere che, nonostante tante difficoltà, hanno avuto il coraggio di combattere e si sono fatti strada nella vita, si sono formati una famiglia e hanno figli che frequentano l’università.

Pensando a tutto questo, mi è parso conveniente fare quasi un confronto col libro di Saviano e con i suoi personaggi, quelli inventati, anche se presi da fatti realmente accaduti, questi invece di cui scrivo, realmente vissuti. Ecco allora che ho ricordato che ho avuto anch’io una piccola paranza, piena di pesci di ogni genere, piccoli e grandi, ai quali ho cercato di dare quell’aiuto che non avevano mai trovato, quell’affetto disinteressato, quel volerli aiutare a mettere ordine nelle loro vite arruffate e a prospettare loro che il futuro potevano costruirselo migliore. Quel soffrire e quel gioire assieme che ha maturato anche me, dandomi una dimensione paterna e reciprocamente donando loro la consapevolezza che volendo, potevano appoggiarsi a qualcosa di solido. Perciò mi sembra utile riproporre, oggi, questa mia esperienza. Dovrà il lettore giudicare se queste storie di tanti anni fa siano ancora attuali e possano dare, con l’esperienza di ieri, una spinta per risollevare, o almeno alleviare, tante sofferenze, più o meno palesi, presenti nel mondo della emarginazione giovanile. Se potessi, la rifarei aprendo sempre più le mie braccia alle tante sofferenze di chi non ha voce.  Tenterei di contattare Nicolas e la sua paranza, cercando di far capire loro che esistono tante cose belle e certamente più belle della droga e del sentirsi super uomini solo perché si possiede e si maneggia una pistola.

Le mie notazioni terminano con la chiusura della casa famiglia e con l'inizio di una nuova avventura, l’apertura della Comunità Terapeutica “Il Pioppo”. Ma questa è un’altra storia...

UN INCONTRO... VENTI AMICI

 

Un incontro, avvenuto quasi per caso, mi ha messo in contatto, da circa un anno, con alcuni ragazzi dei “Quartieri”. Attraverso loro, ho scoperto un mondo nuovo che vive tra il Corso e Via Roma, nei vicoli che si intersecano ad angolo retto, da Magnocavallo ai Gradoni di Chiaia, pressappoco. Ragazzi dai 13 ai 18 anni. La conoscenza di un paio di loro mi ha portato, gradualmente, ad avere contatti con circa venti di essi. Quasi tutti orfani di padre o di madre e tuttavia con una decina di fratelli, con un livello di istruzione bassissimo (pochi di loro hanno la licenza elementare) o addirittura inesistente. 

Hanno iniziato a lavorare a otto, a dieci anni. Garzoni con paghe da miseria: duemila o tremila lire alla settimana. Poi, a un tratto, qualche compagno più grande ha rivelato loro la possibilità di guadagni maggiori e hanno cominciato a scippare borsette o a forzare i deflettori delle auto per impadronirsi di una valigia o di un’autoradio. Hanno avuto in tasca biglietti da diecimila, talvolta anche da centomila, sperperandoli in pochi giorni con spagnolesca prodigalità.

Sono incappati nelle mani dei carabinieri o della squadra antiscippo. Sono finiti nelle prigioni-scuola e lì le famiglie li hanno abbandonati al loro destino. Sono usciti, hanno ritentato la sorte, sono ricaduti... Processi con avvocati difensori d'ufficio e con imputazioni sempre più rilevanti: furto con scasso, recidività, furto aggravato, associazione a delinquere... E ricomincia il pellegrinaggio da una casa di rieducazione all’altra, sbattuti come cose, senza mai vedere un familiare, senza avere una parola di conforto, di incitamento, di ammonizione, se non quelle generiche e vaghe, di chi fa l’educatore per mestiere... 

Passano i mesi, gli anni... Escono abbrutiti, peggiorati, con un odio amaro verso la società, verso ogni uomo. Il loro reinserimento diviene sempre più difficile, quasi impossibile. Non hanno più fiducia in se stessi, non sanno più sperare né in Dio, né nei loro simili... 

Questo, in breve, lo standard di parecchi dei ragazzi che ho conosciuto. Cosa strana, essi si sono affezionati a un prete che parlava loro di Dio, di Cristo (mai sentito nominare, conosco solo il Volto Santo, mi disse un sedicenne), dei grandi problemi della vita, della necessità di un lavoro normale, di continuare a studiare, di non essere autolesionisti, perché a tutto c’è rimedio. 

Diversi si sono salvati. Oggi lavorano, studiano, pensano al futuro con serenità, hanno compreso gli errori commessi, hanno fatto la prima comunione a sedici, diciotto anni... Altri sono in carcere. Scontano le loro colpe, aggravate dall’esasperante lentezza della giustizia. Con essi ho uno scambio epistolare continuo, diuturno, vivace. Nel silenzio di una cella, dinanzi a un foglio di carta, sono capaci di esprimere con chiarezza e spietatezza i loro stati d’animo, le perplessità, i dubbi, certi di ricevere una risposta. Alcuni di essi, a quindici, sedici anni, hanno capito la vita e ragionano da persone mature. Personalmente, anche se hanno commesso reati contro il patrimonio, non li ritengo colpevoli, ma piuttosto vittime di una spirale di ignoranza, di sottosviluppo, di povertà, anzi di miseria. Sono stati abituati ad arrangiarsi, perché i soldi a casa non c’erano o non bastavano; il contatto col mondo della scuola è stato troppo breve e limitato al fattore nozionistico piuttosto che educativo; la Chiesa, nella persona del sacerdote, non ha fatto nulla per loro, tranne che battezzarli. 

In molti di loro il senso del peccato è rudimentale, quasi inconsistente; la religione è ridotta a un fatto di superstizione e di stupore dinanzi alla morte. Hanno rubato, hanno scippato e non si rendono bene conto perché queste azioni sono sbagliate. Hanno la fame del danaro perché hanno la fame del corpo e capiscono che con i soldi possono procurarsi da mangiare e da vestire decentemente. Alcuni mi hanno confessato candidamente di aver rubato delle moto unicamente per provare l'ebrezza della velocità, e poi le hanno abbandonate. 

Per me, prete, è un materiale umano rozzo, difficile da raffinare, ma ricchissimo. Per due ore, un giorno, un diciottenne è restato ad ascoltarmi mentre gli parlavo di Dio e del fine della vita. Rivelano a tratti tesori di generosità, di altruismo, di dedizione quasi eroica. Tuttavia resta un lavoro lento e difficile. All'inizio sono tendenzialmente sospettosi, non riescono a capire perché un tizio si interessi a loro, poi si aprono e sono felici di averti per amico: “mi fa piacere che qualcuno si interessi a me - mi scrive un ragazzo dalla prigione-scuola di Santa Maria Capua Vetere -, appena uscirò, verrò a trovarla”. 

Apostolato difficile anche perché a molti pare strano che un prete si interessi “di questi ladri”. Certo è più bello, è più comodo, è più pulito curare la formazione spirituale di ragazzi benestanti. È vero che “i poveri sono scomodi, ingombranti, suscitano repulsione, intimidiscono”. È facile dire una parola gentile a uno della nostra condizione: si sa o si può prevedere fino a the punto essa sarà compresa. Ma non si sa mai che cosa il povero capisce e che cosa non capisce... Quella dei poveri, come quella di Dio, è una presenza scomoda. “Sarebbe meglio che Dio non fosse; sarebbe meglio che i poveri non fossero: perché se Dio c’è, la mia vita non può essere la vita che conduco; se i poveri ci sono, la mia vita non può essere la vita the conduco” (Don Mazzolari). E la povertà molto spesso non è soltanto un fatto di stracci; può trattarsi del giovane diciottenne al quale, con tanta pazienza, si deve insegnare a mettere i numeri in colonna oppure a leggere l'orologio, e questo non perché sia stupido, ma perché mai nessuno l'ha trattato da essere umano. 

Può trattarsi ancora di insegnare a leggere e a scrivere a un ragazzo tredicenne che mai è andato a scuola e vive raccogliendo cartoni e rivendendoli. Apostolato difficile perché, in taluni casi, purtroppo, i consigli, la scuola, le ammonizioni, l'amicizia... non bastano. Talvolta te li vedi dinanzi affamati (sì, la fame ancora esiste, anche oggi, a Napoli!), strappati, con le scarpe a pezzi. E allora ci vorrebbe anche l'aiuto materiale, ma i mezzi mancano e loro sono tanti. Tante volte sedersi a tavola, dormire in un letto, diventa un tormento, una sofferenza, perché so che a meno di un chilometro, sono dieci, venti, cento i giovani, i ragazzi che oggi mangeranno solo un piatto di pasta e che stanotte dormiranno in una macchina... 

La società viene a conoscenza, dalla stampa, degli scippi e li deplora; lo Stato, con braccio ferreo, prende questi ragazzi e li rende inoffensivi per sei mesi, per un anno, mettendoli nelle prigioni-scuola o nelle case di rieducazione. Ma tutto questo serve a qualcosa? Ben poco o nulla si fa per prevenire le cause per cui tanti giovani vivono sbandati e crescono asociali; molto poco e men che nulla si fa per rieducarli effettivamente, per recuperarli socialmente, per farne degli uomini coscienti e responsabili. 

Ignorare il problema è molto comodo, limitarsi a deplorarlo è assai facile, agire concretamente è difficile, costa, e allora si pensa più volentieri ad altro, alla partita di calcio, al balletto, al film impegnato da vedere. “Noi dobbiamo sensibilizzare, muovere le masse...”, mi diceva un ex-alunno militante nelle file della Federazione Giovanile Comunista. 

“Non so che farmene delle masse - gli ho risposto - a me interessa il singolo, l'individuo, la persona. Anche se avrò contribuito al realizzarsi umano e sovrannaturale soltanto di cinque o dieci di questi miei fratelli, non avrò vissuto invano”. 

da “II Pontano” - ott.-dic. 1972 

Ernesto Santucci S.J.

 

Lettera al Direttore

 

Sono abbonato da diversi anni alla Vostra rivista che seguo con molto interesse. Sento il bisogno, ora, di scrivervi, dopo aver letto l'articolo di Clara Virgili sui disadattati (che brutta parola!) e in particolare sul problema delle case di rieducazione, prigioni-scuola, ecc. Della Virgili avevo letto anche gli articoli pubblicati su “Rocca” dei mesi scorsi, sullo stesso argomento. Il motivo per cui scrivo è che da più di un anno mi interesso dello stesso problema, all'inizio marginalmente e che poi, man mano, mi e andato prendendo sempre più. 

Abito al limite di una delle zone più sottosviluppate di Napoli. Casualmente mi imbattei, diverso tempo fa, in un gruppetto di giovani che stavano rubando una moto. Ci mettemmo a parlare e feci amicizia con loro. Da questi ragazzi sono risalito fino alle loro famiglie, sono entrato nelle carceri minorili (“Filangieri” a Napoli e “Angiulli” a Santa Maria Capua Vetere) e nelle case di rieducazione (Nisida e Colli Aminei a Napoli). Attualmente confesso tutte le domeniche al “Filangieri”. Nello stesso tempo mantengo i contatti con i giovani e i ragazzi che sono fuori e con quelli che vengono dimessi dal carcere e tornano in libertà. 

I problemi sono enormi e innumerevoli. I ragazzi che entrano in carcere sono tutti di famiglie povere, disgregate e in condizioni difficili, sia socialmente che moralmente. È l'ambiente che genera quel mondo in cui il furto, lo scippo, è l'unica soluzione. I giovani sono semianalfabeti, moltissimi si sono fermati alle prime classi elementari. Hanno lavorato da piccolissimi, poi hanno capito che rubare rendeva di più, e hanno lasciato quel lavoro generico e mal retribuito. Molti di essi non sono mai entrati in una chiesa se non per rubarvi. 

In campo religioso c'è una ignoranza spaventosa. Ho preparato alla prima comunione giovani di 17-19 anni! E quando, compiuti i 14 anni, si entra in un carcere minorile, si continua a scendere per una china sempre piè ripida... Le famiglie non hanno denaro per incaricare un avvocato, per cui passano mesi e mesi, talvolta anche anni, prima the si faccia la causa; i giudici si regolano strettamente sul codice, senza chiedersi mai il perché. Ci si abitua ad una vita monotona, fatta di molta inerzia, di vizio, di desiderio di mettersi in vista presso il direttore... praticamente viene distrutta (ammesso che c'era) la dignità umana, l'ingegnosità, il senso dell’intraprendenza. Molti mi dicono: appena esco, tornerò a rubare, e cosi effettivamente avviene. Molti ragazzi, dopo 15 giorni, un mese, tornano con nuove imputazioni, e tutto diventa difficile. Vi sono alcuni che son dentro per la terza, quarta volta. E anche qui non ci si chiede il perché. Un ragazzo di 17 anni, dimesso dal carcere, si è visto licenziato da ben tre posti di lavoro, unicamente perché il “padrone” si accorgeva che era stato “dentro”. Naturalmente quel ragazzo si scoraggiava sempre più, e quando gli veniva rivolto l'invito ad andare a rubare, era inevitabile che accettasse. Cosi, non c'è nulla che possa prevenire i ragazzini ancor piccoli che cominciano a rubare. 

Un padre di famiglia (10 figli) si rivolse a me: due suoi ragazzi (13 e 14 anni) stavano prendendo una brutta piega. L'Ufficio Distrettuale Servizio Sociale per i Minorenni (20 Assistenti Sociali per tutta la Campania!) mi dice che l’unica cosa da fare è chiedere al Tribunale dei Minorenni l'internamento dei due ragazzi presso una Casa di Rieducazione (peggioramento assicurato, a detta delle stesse Assistenti Sociali!). La domanda, nonostante tutto, viene fatta perché i genitori intendono togliersi dai piedi i figli, ma a distanza di due mesi il Tribunale dei Minorenni non risponde... Se nel frattempo i due ragazzi verranno presi in flagrante, le porte del carcere minorile si chiuderanno all'istante dietro di loro. 

Penso che dobbiamo sensibilizzarci tutti e di più a questi problemi; noi, società, prima disadattiamo questi giovani, poi gli attacchiamo questa etichetta e li puniamo per colpe che, tutto sommato, sono anche e soprattutto nostre. 

Ho letto nella cartella di un giovane diciassettenne, che ha avuto al suo attivo parecchi furti e diverse detenzioni, questa qualifica: “socialmente pericoloso”. Come si può arrivare a bollare in tal modo, per tutta una vita, un ragazzo che conosco molto bene, meglio dei giudici, credo, e che di pericoloso non ha proprio nulla? E perché non si fa nulla per prevenire il crimine giovanile, per ridurre o eliminare l'evasione scolastica, il lavoro minorile? Come è “edificante” vedere negli stessi locali del Tribunale dei Minorenni o in Questura, aggirarsi ragazzini, garzoni di bar, che portano caffè o altro! 

Non voglio tediarvi di più. Mi chiederete perché vi ho scritto. Forse anche per uno sfogo, ma anzitutto per cercare aiuto dai lettori. Non aiuto materiale, ma aiuto di amicizia, specialmente nei lettori di Napoli, se ve ne sono. Ho preso in affitto un piccolo appartamento proprio nella zona dei “quartieri”, una delle più malfamate, e vorrei che ne venisse fuori un centro per aiutare questi ragazzi, impedire che entrino nelle carceri minorili e aiutarli quando escono. Vorrei iniziare una specie di scuola in modo da dare la possibilità di prendere almeno la licenza elementare. Vorrei inoltre aprire un consultorio medico-legale. Le idee sono molte e ambiziose, forse. Ci sono a Napoli dei giovani disposti a dare una mano, ad aiutare dei loro coetanei? Ho bisogno di tutto, ma principalmente di amici che condividano questi miei ideali e che vogliano e sappiano dare un po' del loro tempo per questi loro fratelli. Li troverò? 

Mi accorgo, in questo momento, di non essermi ancora presentato: sono un prete, non più tanto giovane (43 anni), forse un tantino ingenuo, che crede al Vangelo e vorrebbe metterlo in pratica. Se “Dimensioni” crederà opportuno pubblicare qualcosa di questo mio scritto confuso, ma venuto fuori dal cuore, scrivetemi o telefonatemi. 

  1. Ernesto Santucci s.j. 

da “Dimensioni Nuove”, settembre 1973 

La prostituzione maschile a Napoli

 

Il 20 dicembre scorso il programma televisivo “AZ” ha condotto una indagine sulla prostituzione maschile, in particolare riguardante i minori. Ho collaborato alla nascita dell'inchiesta, dando la possibilità al regista Giuseppe Marrazzo di intervistare diversi minorenni alla Ferrovia e ho preso parte al dibattito in studio. La trasmissione, a mio avviso, non ha suscitato quegli echi che avrei auspicato. Più di dieci milioni di spettatori hanno accettato supinamente una tragica realtà, già precedentemente venuta alla luce in occasione del delitto Pasolini, e le scarse recensioni della stampa si sono soffermate più su valori formali che su quelli di sostanza. 

Credo valga la pena in questa sede di riesaminare it problema in tutta la sua ampiezza prospettando eventuali soluzioni. Gli adolescenti, i giovani che arrivano al rapporto omosessuale hanno, più o meno, un denominatore comune. Appartengono a famiglie povere, numerose, molto spesso sono figli illegittimi. La loro infanzia è stata contrassegnata da carenze affettive, ricoveri in istituti, fughe, vagabondaggio. Culturalmente, se non sono analfabeti, si sono fermati alle prime classi elementari. Hanno vissuto in bande, hanno rubato per vivere, hanno fatto l'esperienza del carcere minorile e del riformatorio. La sociologia li classifica come “disadattati” e la psicologia cerca di comprendere il processo che li ha condotti in tali condizioni e lo individua in un “ritardato sviluppo psicologico e sociale dell'individuo”. 

Sono giovani che non hanno avuto la possibilità di maturare affettivamente, non hanno la capacità di entrare in rapporto con gli altri e con la realtà che li circonda, hanno perso, o non hanno mai avuto, ogni senso di fiducia in sè stessi e negli altri. La famiglia non ha mai esercitato alcuna azione educativa, non ha offerto valori, non ha mai dato calore umano; l'affetto, se c'è stato, si è mantenuto sempre su un piano “animale”. Questi minori dovrebbero essere trattati come ammalati da recuperate, da guarire. Invece sono sbarcati sull'ultima spiaggia: la ferrovia. Nei vagoni, sulle panchine dei sottopassaggi hanno eletto il loro domicilio. Hanno capito che rubando rischiano anni di carcere, ma che accompagnandosi con gli omosessuali riescono a guadagnare senza alcun pericolo. In alcuni c’è una componente di affettività che credono di saziare tra le attenzioni morbose del partner, in altri prevale una specie di rivalsa, la sicurezza di poter dimostrare a sé stessi di essere uomini. 

Hanno iniziato presto, troppo presto. A tredici anni, per molti di loro, la vita non aveva più segreti. Hanno perso ogni senso di pudore, si sono adattati a tutto: dal rapporto fuggevole in macchina o dietro un muro alle più elaborate forme di perversione sessuale. Una buona parte di loro, comunque, si rifiuta di compiere il ruolo passivo. È importante notare che non sono e non desiderano essere ritenuti omosessuali: la prestazione che offrono è e deve essere sempre di pretto stampo virile. Sono e si sentono uomini. La loro bisessualità è esclusivamente di ordine “economico”. Perciò fuggono e disprezzano il cliente che chiede loro di invertire il ruolo. Alcuni di essi, dopo una esperienza di questo genere, sono restati talmente scossi da troncare, una volta per sempre, relazioni omosessuali. Alcuni giovani, all'incontro occasionale, preferiscono l'amico stabile. Ciò significa per loro uscire dall'ambiente della Ferrovia e andare a vivere in una casa. L'amico li circonda di mille attenzioni e premure, li fa mangiare, li riempie di danaro, non sempre chiede il rapporto sessuale; praticamente riveste il ruolo di madre e di sposa. Il giovane mantenuto si fa sempre più esigente, pretende ogni giorno di più, finché si arriva alla lite, al troncamento brusco della relazione. Ma il ragazzo ormai è abituato al dolce far niente, ha perso ogni volontà di lavoro e quindi si darà da fare per cercarsi e trovare un altro amante, talvolta anziano, in una spirale sempre più triste e abietta, in fondo alla quale talvolta matura il delitto, per gelosia o per interesse. Ed è intorno a questi delitti, quando avvengono, che la stampa e i rotocalchi si avventano con feroce morbosità, molto spesso presentandoci una visione parziale e travisata dei fatti, descrivendoci la vittima quasi fosse stata un benefattore dell'umanità e l'occasionale omicida un perfido e sporco approfittatore. L'altra verità, cioè quella del minore sfruttato, avvilito, umiliato, costretto dalla fame e dal bisogno a fare mercato del proprio corpo, a compiere le più degradanti prestazioni, questa verità viene sfumata, posta sapientemente in ombra o presentata come una libera scelta operata da minori dissoluti e cinici. Io difendo questi minori. Quattordicenni, nel buio di un dormitorio di una casa di rieducazione o nella cella di un carcere minorile, hanno subito sul loro corpo la violenza di parecchi ragazzi più grandi di loro, in un tragico gioco erotico. 

Quindicenni, sedicenni, dopo giorni interi di digiuno, alla ricerca di un utopico posto di lavoro, hanno ceduto, sono venuti a compromesso con quel residuo di coscienza che restava loro, rifacendosi, prendendosi una rivalsa, sia pure a livello inconscio, sulle precedenti violenze subite. Non giustifico le loro azioni, ma le comprendo. Non oso innalzarmi a loro giudice. Condanno, invece, senza mezzi termini, tutti coloro che in un modo o nell'altro consumano quotidianamente questa “strage degli innocenti”. E tra costoro, ci siamo anche noi, inerti spettatori. Il conduttore del dibattito televisivo mi chiedeva: “Ma a chi spetterebbe pensare a tutti questi minori che vivono alla Ferrovia?”. E uno spettatore mi scriveva: “Cosa sta a fare la Buoncostume?... Che ci sta a fare la Polizia Femminile?”. Sono domande a cui non so rispondere. So soltanto che se a questi giovani viene proposta una alternativa valida, se cioè viene offerta loro una casa, del lavoro, un po' di affetto, ben volentieri sono disposti a lasciare la ferrovia. Alcuni di questi ragazzi vivono nella nostra comunità-alloggio. Purtroppo non basta dar loro un alloggio e calore umano. Resta il difficile problema di un inserimento nel mondo del lavoro. Dovrebbero trovare una collocazione idonea, secondo le loro capacità e inclinazioni e non accontentarsi di un impiego generico in cui si configurano tutte le premesse dello sfruttamento. Ecco perché alcuni, dopo aver disperatamente cercato un lavoro che restituisse loro quella dignità umana perduta, ma non completamente e definitivamente rifiutata, sono stati dolorosamente riassorbiti dalla Ferrovia, col miraggio del denaro facile e abbondante. 

Problema, allora, non di vizio e di omosessualità, ma profondamente e interamente politico e sociale. Se continueremo ad isolare questi minori nei ghetti delle ferrovie, se continueremo a scandalizzarci delle loro azioni, se nulla continueremo a fare per porgere loro un aiuto concreto ed efficace, avremo firmato e controfirmato il fallimento totale di questa nostra società. 

Ernesto Santucci S.J. 

da “Rinnovamento psichiatrico” - sett.-dic. 1975 

Ragazzi di vita

 

“Quattro ragazzi. Sui tredici, quindici anni. Dicono di essere scappati da un Istituto di rieducazione. Fumano, seduti sui gradini della Metropolitana. Dicono che resteranno alla Ferrovia fin quando non li riprenderanno. Intanto dormiranno in terra, in un vagone o su una panca, ruberanno per rimediare un po' di cibo, forse si prostituiranno. La gente passa, li guarda, ma non se ne interessa. Forse se qualcuno si avvicinasse, fuggirebbero. Due di essi sono molto piccoli. Hanno gli occhi rossi dal sonno. Domani saranno ancora qui. Può darsi, invece, che vorranno vedere come è fatto il mondo e prenderanno il treno per Roma, per Milano. Ma poi, fatalmente, ritorneranno a Napoli. E intanto cresceranno come bestie, senza frequentare una scuola, sempre pronti ad arrangiarsi, ad approfittare della debolezza e della dabbenaggine altrui. Sembrano degli animali selvatici che escono di notte dalle loro tane, le orecchie tese a percepire pericoli lontani, sempre guizzanti, scattanti, sul chi vive. Tendi una mano per carezzarli e chiudono gli occhi, aspettando un ceffone. Si sentono scardinati, isolati, lontani dalle loro famiglie d'origine, anche se non sono capaci di rinnegarle, di rifiutarle to-talmente. Si accorgono che tu per loro non costituisci un pericolo e allora ti seguono, improvvisamente addomesticati, almeno apparentemente. Perché sono abituati a sospettare di tutto e di tutti e sono pronti a fuggire, scomparendo nell’oscurità della Metropolitana, appena avvertono qualcosa di sospetto, di pericoloso. E intanto scherzano e ridono attorno a te. Hanno dimenticato il sonno o forse cercano di dimenticarlo. Di te, ora, si possono fidare. Hanno trovato un amico potenziale, qualcuno o qualcosa su cui potersi appoggiare, sia pure per un momento...” 

Scrivo queste righe dopo aver passato una notte alla Ferrovia, teso a scoprire un mondo nuovo, un universo inesplorato, ma interessante perché popolato di giovani, di ragazzi, di uomini uguali a me. Sono stati portati a vivere alla ferrovia da diverse motivazioni, ma ora costituiscono un qualcosa, un popolo di emarginati, di “gente che non conta” di cui, però, non possiamo disinteressarci, addormentandoci in un comodo “non lo sapevo”, di stampo egoistico. 

Sono scappati di casa, sono venuti perché le loro famiglie si sono dissolte o erano incapaci di comprenderli; sono fuggiti da istituti spersonalizzanti e anonimi. La maggior parte di essi ha effettivamente alle spalle terra bruciata: non possono, non sanno o non vogliono tornare indietro. Ed organizzano la loro vita, rubando, imbrogliando, smerciando droga. I più deboli, e non sono pochi, si prostituiscono per poche lire. Parlare di questo argomento, me ne accorgo, è difficile. Non si riesce a rendere completamente, in un modo pieno, cosa è l'ambiente della Ferrovia. Per noi è un qualcosa di transitorio, di passeggero. E invece per molti questa transitorietà diventa stabile e il treno rappresenta la casa e i binari la strada sotto casa e i ferrovieri benevoli che chiudono un occhio sono il ricordo dei parenti, di coloro che avrebbero dovuto interessarsi di loro. 

Questi ragazzi dormono di giorno e di notte cominciano ad agire. II furto di un portafogli pieno garantisce loro la possibilità di poter mangiare e di poter offrire da mangiare a chi è più sfortunato di loro; assicura l'acquisto di un nuovo indumento da sostituire a quello logoro che indossano da mesi e mesi. Ma non tutti hanno il coraggio di rubare. Molti, che lo hanno provato, temono di tornare in carcere: i lunghi mesi senza far nulla, senza una visita, il processo con l'avvocato d'ufficio, la condanna quasi sempre repressiva e spietata... sono ricordi che bisogna allontanare. Cosi, come sostitutivo meno pericoloso, si ricorre alla prostituzione. Decine e decine di individui dai gusti “diversi” battono la Ferrovia: basta un gesto, un sorriso, un occhiolino e il ragazzo segue l'adulto. Talvolta è una sosta fuggevole in un gabinetto. Pochi minuti per cinquecento lire. Altre volte la vittima prescelta segue l'omosessuale a casa o in albergo. Si tratta di passare la notte in un letto e di avere una retribuzione maggiore, ma dovrà adattarsi a tutte le pretese particolari che gli verranno richieste. 

Succede che un “diverso” di una certa età qualche volta chieda al minore una compagnia stabile e il giovane accetta, nell'illusoria speranza di essere riuscito a trovare la famiglia persa. Ma i risultati sono senz'altro negativi: il giovane si abitua ad essere mantenuto, diventa pretenzioso, si crede insostituibile. Ma l'amico di un mese si stufa ben presto e va in cerca di un sostituto più docile e più ingenuo. Il mantenuto si ritrova in mezzo alla strada e si abbasserà ancora di più, si presterà ad ogni gioco abietto pur di riavere un tetto e un cibo caldo. 

Gli omosessuali sanno che possono trovare, sempre disponibili, tanti e tanti adolescenti e battono, in numero sempre maggiore, i marciapiedi della Ferrovia. Ai senzacasa si aggiungono anche parecchi studenti che si prostituiscono fuggevolmente per avere il denaro necessario per acquistare la droga. Ammesso che un ragazzo voglia uscire dal cerchio malefico della Ferrovia, non sa dove andare. Innanzitutto va detto che, bene o male, ha acquistato un certo spirito d'indipendenza, una certa personalità, per cui difficilmente potrà piegarsi alla routine di un istituto. Portato a diffidare, a sospettare di tutti, raramente chiederà aiuto a coloro che rappresentano per lui it potere, l'altra barricata. E anche quando si va verso di lui ad offrirgli, disinteressatamente, un aiuto qualsiasi, ti guarderà con occhio critico e interrogativo. Non ha mai ricevuto nulla con disinteresse e quindi la sua prima domanda sarà: cosa vuoi da me? 

Un giorno mi hanno condotto un ragazzetto di quattordici anni, ma che ne dimostrava nove, dieci. Aveva un paio di pantaloni, più grandi di lui, legati alla vita con lo spago, e una maglietta sbrindellata. Aveva vissuto diversi mesi alla Ferrovia. Lo abbiamo ripulito, rivestito, abbiamo preso contatto con la famiglia. Era scappato di casa sei volte. Orfano di madre, era vissuto con la nonna. Morta anche la nonna, era stato riaccompagnato dal padre, che nel frattempo si era risposato e aveva avuto altri figli. Col padre si sentiva straniero. La nuova madre e i nuovi fratelli non gli dicevano nulla. Le zie materne lo avevano rifiutato: i loro mariti non lo sopportavano. Ora lavora, inserito in una comunità alloggio, che si sforza di riproporre il modello della famiglia, superamento del comodo e semplicistico ricorso all'istituto che quasi sempre fonte di disadattamento. Questo ragazzetto è fratello di tanti altri che ancora vivono come bestie braccate. Questo ragazzetto deve entrare, con prepotenza, nelle nostre coscienze di uomini dabbene, per turbarle e agitarle. 

Non possiamo più vivere tranquillamente quando sappiamo che a breve distanza da noi c'è chi non mangia da due giorni e che se vuole mangiare deve prostituirsi; c'è chi dorme su una panca della metropolitana e che se vuole dormire in un letto deve andare a rubare. Un ragazzo della “Scuola di Barbiana” scriveva: “Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica. Sortirne da soli è avarizia”. 

Ernesto Santucci S.J. 

da “Prospettive rotariane” - dicembre 1975 

Dal settembre 1975 al 31 dicembre 1976

 

E passato più di un anno da quando ho appuntato gli ultimi avvenimenti. Quante cose sono successe! E impossibile riassumerle tutte. Tenterò di fare un bilancio di quest'anno che, tutto sommato, giudico positivo. Sono passati molti ragazzi in comunità. Alcuni casi si sono risolti positivamente, ma tanti ragazzi sono quasi spariti nel nulla, cioè non si sono più rivisti. 

Gaetano ha avuto la sua esperienza di carcere dal 25 settembre 1975 fino ad un mese fa. Ora è fuori per scadenza di termini, si è messo con una ragazza e pare ben intenzionato a lavorare. Vive con la zia. Ho preferito non riprenderlo in modo che possa maggiormente responsabilizzarsi. Lucio ha avuto momenti bruttissimi. Il 23 dicembre dell'anno scorso, per un furto di poco conto, si ritrova a Poggioreale. Per qualche giorno non sapevamo dove fosse e cosa gli fosse successo. Un Natale triste per noi e per lui. Poi il 26 mi telefonò il cappellano del carcere e mi dette la brutta notizia. È uscito ai primi di marzo, molto traumatizzato. Ha tentato il suicidio diverse volte, non riusciva a veder chiaro dinanzi a sé. Fortunatamente, si è ripreso. Da luglio, lavora come garagista, si è trovato una brava ragazza e sembra guardare alla vita con fiducia. Attualmente, assieme a lui, vivono in comunità Lorenzo e Giovanni. Anche Lorenzo ha avuto un momento di sbandamento, ma fortunatamente si e ripreso. Tutti e tre lavorano e guadagnano discretamente. Ad essi si è aggiunto Marcello, che vive con noi da pochi mesi e ancora non si è inserito perfettamente. Gli altri sono via. Tonino il sarto sta facendo il militare. Aldo, dalla metà del novembre 1975 è a Torino, presso il Gruppo Abele, dove lavora come pizzaiolo. È ancora minorenne, ha poco più di sedici anni, ma è maturo e giudizioso. Umberto andò via senza dir nulla, da un giorno all'altro: credo stia facendo anche lui il militare. Enzo è tomato a casa sua, si è riappacificato con i genitori. Andrea è tornato dalla madre, ora dovrebbe essere anche lui sotto le armi. Mario ci ha lasciati da circa un mese, sta portando avanti un'attività non molto chiara. Altri ancora sono venuti e sono andati via. 

Quante storie, dietro un semplice nome: Benedetto, Tonino, Alberto, Mario, Pasquale... Carlo è stato un caso piuttosto complesso. Un ragazzo intelligente ma che non ha mai voluto lavorare. Il padre sconosciuto, la madre prostituta a Genova. Si prostituiva anche lui oppure viveva di piccoli imbrogli, di espedienti. Ora è andato via, ma si fa vedere di tanto in tanto. È stato anche in carcere e mi sono interessato per farlo uscire. Tristezza per questi tentativi non riusciti, ultimo dei quali Gigino M., sparito il giorno dopo Natale dopo aver rubato la radio di Marcello. Eppure aveva trovato un buon lavoro ed era voluto bene da tutti. Misteri, che a volte mi lasciano sconcertato. 

Peppino C. si è allontanato dalla comunità quasi subito dopo la degenza in ospedale. Credo che anche lui abbia preferito frequentare ambienti di omosessuali. Poi, una settimana fa, una sua lettera da Poggioreale. Che fare? Peppino D.L., anche lui è sparito. Ha preferito vivacchiare in un mondo ambiguo piuttosto che inserirsi nella società. Un mese fa mi è giunta una sua laconica cartolina da Milano. E poi ancora Alfonso C. Quando venne, circa un anno fa, era spaurito e incapace di decidere da solo. A questo lo avevano ridotto anni ed anni di istituto. Ora è a lavorare a Londra, come aiuto cuoco. Si è realizzato molto, anche se tra molte crisi. E tanti altri passati come meteore: Berhané Alemù, un eritreo che stava letteralmente morendo di fame alla stazione, Menghella, Cucciolo, il primo tossicomane, veniva dal nord ed era diretto in India. Vi sarà arrivato? Cosa farà? 

Nel dicembre del '75 ho rivisto il regista Giuseppe Marrazzo e il fotoreporter  Ciccio Jovane. Un'altra trasmissione televisiva, provocata dalla tragica morte di Pasolini, sulla prostituzione minorile maschile. Abbiamo passato diverse notti alla stazione ed abbiamo raccolto storie di vita amare e crudeli. Abbiamo scoperto che tutti quelli che hanno paura di rubare preferiscono la prostituzione, e sono tanti. Dopo la trasmissione, che solleva un certo scalpore, la Polfer fece un po' di pulizia alla stazione. Dopo qualche mese, tutto era come prima, peggio di prima. In tutto questo periodo forse non sempre sono riuscito a vedere in tutti questi volti quello del Cristo sofferente, forse mi son fatto prendere da una certa predilezione per qualcuno, mentre ho trascurato altri. Ho sbagliato tante e tante volte... Ma è un anno, tutto sommato, positivo. Ho aiutato molti a ritrovare la libertà, a rimettersi sulla strada, a cercare di fare ordine, a capire qualcosa nella loro vita ingarbugliata. Se non sempre si son visti i frutti, tuttavia ho seminato. 

Il Terzo Mondo è dietro l'angolo

 

Peppino è nato a Napoli il 2 novembre 1957 da padre ignoto. La madre è morta quando egli aveva circa quindici anni. L'uomo che conviveva con la madre, lo pianta in mezzo alla strada. Peppino comincia a vivere di piccoli espedienti. Per un certo periodo di tempo convive con un omosessuale. A sedici anni è in carcere per concorso in rapina. Dopo pochi giorni è dimesso e viene mandato in casa di rieducazione. Fugge e riprende a vivere la sua vita per la strada. È ripreso e viene inviato nella casa di rieducazione di Eboli, poi in quella di Nisida. Durante un altro periodo di fuga, ruba un orologio assieme ad altri tre ragazzi e viene di nuovo incriminato per furto aggravato. Di nuovo il carcere. Quando esce, viene accolto in un pensionato giovanile, dipendente dalla Procura della Repubblica. Dimesso il 20 dicembre, gli arriva un mandato di cattura il 1 gennaio '75. Questa volta l'accusa è di violenza carnale nei confronti di un coetaneo, avvenuta ad Eboli. Carcere ancora una volta. Prima del processo, c'è un tentativo di suicidio, poi la condanna: tre anni. Dal carcere di Poggioreale viene trasferito a Palermo, all'Ucciardone, quindi a Salerno. Quando, dopo circa un anno e mezzo, la causa viene ridiscussa in appello, viene assolto per non aver commesso il fatto! 

Peppino ora ha diciotto anni, ma è già un relitto. Cerco di conquistarmi la sua amicizia, di convincerlo a inserirsi nella società, a cercarsi un posto di lavoro. Tutto è inutile. Da circa un anno non ho più sue notizie. Qualsiasi supposizione è lecita e possibile. 

Mario: nucleo familiare composto dai genitori e da nove figli. La madre convive con un certo T.L., analfabeta, disoccupato; lavora in una ditta di pulizie. I figli sono stati concepiti tutti in istato di alcoolismo. Mario all'età di cinque anni è stato istituzionalizzato presso la Scuola Serena da dove è stato dimesso a 15 anni. Ha lavorato per un periodo come apprendista vetraio, poi ha abbandonato il lavoro per orientarsi verso abitudini dissociali. È stato in carcere minorile per furto, ma ha goduto della libertà provvisoria, ma poi è stato ancora arrestato per furto aggravato. Introverso, con limitatissimi poteri di critica e difficoltà nei rapporti interpersonali. Evidenzia una marcata insicurezza di base e una globale immaturità. Percepisce l'ambiente familiare in maniera frustrante e ha avuto spesso rapporti omosessuali. 

Gennaro: è stato detenuto nel carcere minorile per furto aggravato. II suo nucleo familiare è costituito da cinque figli di cui egli è il più piccolo. Entrambi i genitori sono defunti. In famiglia vive una parente che accudisce il nucleo. Ha frequentato la prima elementare. Ha tentato qualche esperienza lavorativa, come apprendista fabbro e garzone salumiere. E molto nervoso. Vive per strada per proprio conto, associandosi a ragazzi fuggiaschi. 

Peppino, Mario, Gennaro. L'elenco potrebbe allungarsi all'infinito. Decine e decine di nomi, con paternità sconosciute, con madri che battono il marciapiede. Giovani che non hanno mai conosciuto il sorriso materno (può sembrare una frase fatta, ma non lo è) e che hanno provato un collegio dopo l'altro. Marcello è entrato in un orfanotrofio a pochi mesi; i suoi anni sono stati ritmati da un collegio a un altro, da un istituto a un altro, fino ai diciotto anni. Aridi elenchi di nomi, ricordi velati di volti anonimi, di punizioni, di fughe, di passaggi in altri istituti, di vagabondaggio, di furti commessi per poter mangiare, per potersi vestire quando gli abiti indossati erano in brandelli. Potrei aggiungerne tanti e tanti altri, ma dietro di essi sarebbe difficile poter vedere famiglie dissociate, padri ubriaconi, fratelli e sorelle ammassati in umidi bassi o in baracche sconnesse. Ragazzini che hanno cominciato a lavorare a cinque, sei anni... La scuola? Una cosa inutile, superflua, fatta solo per chi può permettersene il lusso. E a sei anni si lavora come garzone di bar portando sul vassoio un caffè dopo l'altro, oppure arrampicandosi per piani e piani di scale a portare a domicilio la carne, la pasta e l'olio. E a fine settimana, la paga: cinquecento lire, oppure qualche migliaio di lire per i più grandi. Tanto ci sono le mance. E a stento si riesce a sottrarre qualche centinaio di lire dalle mani del padre avido per un pacchetto di sigarette o un film di terza visione. 

Il ragazzo cresce ignorante, disamorato, asociale. Che importa? Quando sarà più grande troverà altri ragazzi come lui e ci sarà in mezzo ad essi uno più intraprendente. Li organizzerà. Non si ritireranno più la notte a casa, e come potrebbe attirarli quella “casa” dove devono dormire nello stesso letto assieme a uno o due fratelli più piccoli? Tenteranno i primi furti, andando a caccia di tutto quanto può essere convertito in danaro dal ricettatore benevolo. Potranno, forse, avere in mano anche loro qualche bigliettone da centomila se le cose sono andate bene, e quel giorno si mangerà e si berrà, ci si potrà rivestire abbandonando i vecchi cenci nell'atrio di un portone, e probabilmente sarà anche possibile acquistare, senza andare troppo per il sottile, una moto usata per poter scorazzare con tracotanza per le vie della città sfidandosi a vicenda, ebbri di gioia e di velocità. 

Si tenteranno i primi scippi e, quasi senza accorgersene, si arriverà alla rapina, anche a mano armata. Sei anni fa, un incontro, avvenuto per caso, con alcuni giovanissimi scippatori, mi ha dato modo di venire a conoscenza del mondo dell’emarginazione giovanile. Non sapevo, non riuscivo a credere che a pochi metri da dove abito, nel pieno centro di Napoli, esistessero anche sacche di miseria e di fame. I “Quartieri Spagnoli”, una delle zone superpopolate della città, con una densità media di tre persone per vano, cominciavano a rivelarsi ai miei occhi in tutta la loro tragica realtà. La vita di questi giovani, per la maggior parte, si svolgeva di notte ed io, ingenuamente, avevo creduto, fino ad allora, che la notte fosse fatta per riposare, per dormire. 

Ho voluto rendermi conto personalmente di quello che é la ferrovia di notte. Accompagnato da un amico, ho trascorso diverse notti sotto la Metropolitana, nella piazza antistante la stazione, sui binari o nei vagoni in sosta allo scalo Gianturco. È emersa una realtà scioccante, quella realtà che la tragica morte di Pasolini, almeno in parte, ci aveva fatto intravedere. Molti ragazzi senza radici familiari o fuggiaschi e che hanno scelto la ferrovia come loro stabile dimora, spaventati dalle pene rese più severe per chi ruba o scippa, si sono dati alla prostituzione. 

Poi, un giorno, mi dissero: “Vi ricordate di Tonino 'o Stuorto? Sta in carcere”. E cosi decisi di andarlo a trovare. Era un pomeriggio di primavera quando varcai per la prima volta la porta del carcere minorile. Respiravo un'altra aria, satura di creolina. Salii per le scalinate dai gradini smozzicati. Mi fecero attendere in una stanzetta disadorna. Me lo vidi all'improvviso davanti, rapato a zero, una maglia sbrindellata e i pantaloni stazzonati. Mi abbraccio piangendo: “Voi solo mi avete pensato” fu il suo grido di speranza. 

Cominciava a farsi strada in me una idea: aiutare questi ragazzi concretamente, ma non sapevo ancora “come” . Una mattina incontrai uno di essi. Aveva sul volto strane ferite. Mi raccontò che aveva dormito in una macchina e che, durante il sonno, un topo lo aveva morso. Pensai che una casa dove accogliere questi giovani poteva e doveva essere il primo passo per un loro reinserimento, una casa che desse loro l'idea di una famiglia, dove non si andasse troppo per il sottile nell'accoglierli e dove potessero almeno lavarsi e dormire in un letto. Trovai un appartamento nella zona e, con l'aiuto di pochi amici, riuscii ad ammobiliarlo alla meno peggio. Non dovetti far fatica a trovare gli abitanti. Sulla porta avevo messo un cartoncino: “Centro Sociale Montecalvario”, ma ogni giorno lo ritrovavo, stracciato, per le scale. Pensai a un dispetto da parte di qualcuno degli inquilini. Poi un ragazzo mi disse: “Siamo stufi di stare in collegi, istituti, centri sociali... Vogliamo stare in una casa come tutti gli altri. Mettete il vostro nome e basta!”. All'inizio ci fu anche una certa ostilità, abbastanza comprensibile, nel quartiere e nel palazzo. Un prete che ospita “mariuoli”! Quando mai si è visto? Dovete aiutare i buoni, gli onesti, non i ladri... E così nacque il nomignolo, dapprima offensivo, poi affettuoso di “prete dei mariuoli”. 

I giovani ospiti autogestiscono la casa quasi sempre con senso di responsabilità e con la consapevolezza di aver trovato finalmente un tetto, ma soprattutto affetto, amicizia e calore umano. Con la collaborazione di un gruppetto di universitari, ragazzi e ragazze, in casa si cerca di creare un'atmosfera familiare, che da molti anni, o da sempre, è mancata ad essi. Alcuni, infatti, non hanno mai conosciuto il padre, e la madre, appena ha potuto, li ha rinchiusi in istituti, da dove sono usciti soltanto a diciotto anni, più o meno spersonalizzati e deresponsabilizzati. Automi, potremmo dire. 

Si potrebbe, si dovrebbe parlare addirittura del “problema dei diciottenni”. Per questi giovani senza famiglia, che hanno compiuto il diciottesimo anno di età, le strutture statali o assistenziali non hanno più nulla da offrire. Per costoro, dimessi dall'istituto o dal carcere, c'è soltanto la prospettiva della strada, della Ferrovia o del dormitorio pubblico. Per il maggiorenne senza famiglia non c'è posto in questa società. Esce da un istituto. Dove andrà a vivere? Dovrà vedersela lui. 

Un giovane ventenne mi ha raccontato di aver vissuto diversi mesi al dormitorio pubblico senza mai poter dormire un sonno tranquillo: diverse volte si era trovato accanto al letto un marocchino che cercava di usargli violenza. E allora si preferisce la Ferrovia, oppure la compagnia equivoca di un contrabbandiere, di un ladro, di un “diverso” che, in cambio di vitto e alloggio, può pretendere le più diverse e svariate prestazioni. 

Lo stesso accade per chi esce dal carcere, dopo aver scontato la pena. L'amministrazione giudiziaria non ti chiede dove andrai, come farai a vivere. Hai saldato il tuo debito con la società, arrangiati. E l'arrangiarsi, troppo spesso coinciderà col tornare a rubare. Chi è che si fida di un ex-carcerato per dargli fiducia, affetto, lavoro? Da anni, ormai, sto dalla loro parte. Me li manda la stessa autorità costituita, molto più spesso vengono spontaneamente o li vado a cercare io stesso, nelle carceri, per la strada, alla stazione. Ma, purtroppo, proprio quando si è riusciti a dar loro una nuova speranza nella vita e negli uomini, ci si imbatte nel lungo e tormentato calvario della ricerca di un posto di lavoro. 

Nella capitale della disoccupazione si trascorrono giornate intere a domandare, ad implorare un lavoro qualsiasi, e molti sono i rifiuti e frequenti sono gli inviti a “ripassare”. Coloro che possono sembrare generosi, badano più al loro tornaconto, che non all'inserimento effettivo del giovane nel mondo del lavoro: un'offerta da fame, giusto per non morire e per poter acquistare qualche indumento. E in cambio, orari di oltre dodici ore di lavoro al giorno, ricompensate con quattro-seimila lire. Sono pochi i datori di lavoro “onesti” che chiedono il libretto di lavoro o quello sanitario. Perciò, dopo un mese, più o meno, si lascia quel posto e se ne cerca uno migliore, nel miraggio del “posto fisso” tanto agognato, che chissà quando e se verrà mai. 

Ogni tanto può sopravvenire lo scoraggiamento: si pensa che forse è meglio tornare a rubare, oppure si tentano gesti sconsiderati, il suicidio o la droga. 

Un appartamento è sempre un appartamento: piccolo, limitato. D'altra parte, degli istituti sono più che stufi. Posso accogliere al massimo una decina di giovani: e gli altri? La soluzione sarebbe di moltiplicare queste case-famiglia, ma i mezzi a disposizione sono molto scarsi. E poi: dare, sì, un tetto e un letto, ma se il lavoro viene a mancare? Non si tratta di un fatto assistenziale, ma dovrebbe essere un modo concreto, anzi l'unico modo valido per combattere la deviazione giovanile. Spesso penso che dovremmo sempre analizzare cosa c'è dietro il banale, monotono fatto di cronaca. Perché quel furto, quello scippo? Perché è stata rubata quella macchina, rapinato quel negozio? 

A parte il fatto di una delinquenza organizzata, molte volte si tratta di gesto esasperato, frutto di una disperazione a lungo repressa e frenata. Enzo, un minore conosciuto nel carcere di Poggioreale, in segno di amicizia mi ha regalato il suo diario. Pagine ingenue, ma che fanno pensare. Scrive, tra l'altro: “Anche noi troviamo giusto che chi sbaglia, deve pagare l'errore commesso, ma devono pensare come è stato fatto questo reato, cosa ci ha spinti a questo, e dopo ci daranno una condanna, ma se la meritiamo... Loro non pensano a tutto questo. Ci condannano solo basandosi sui reati commessi e senza ragioni: è una cosa ingiusta. Sanno solo dire: ti condanno a quattro, dieci, venti anni e così di seguito. La vita è un dono di Dio e loro ce la rubano. Ho commesso un reato a sedici anni e ora ne ho quasi 18, non so ancora quanto mi resta da fare, ma, dopo tutte queste sofferenze, cosa mi serba il destino? Se prima che commettessi un reato nessuno mi ha teso una mano, ora, che mi definiscono un piccolo criminale, cosa possono offrirmi?”. 

Questo problema, quindi, non va risolto con un'ottica assistenziale, né tanto meno repressiva. Postula soluzioni nuove in chiave sociale e politica. Noi invece continuiamo a costruire ghetti, ad elevare muraglie, a emarginare, a classificare, a fare belle analisi, a promuovere convegni e dibattiti. Col nostro disinteresse, col nostro qualunquismo, col perbenismo, col facile scandalizzarci, noi stiamo ponendo le premesse perché possano nascere ancora tanti piccoli Vallanzasca, possano perpetuarsi le guerriglie urbane, possa durare in eterno lo stato di malessere che ci tormenta. 

Ernesto Santucci S.J. 

da “Scuola Informazione” - novembre 1977

Emarginazione e carcere minorile

 

La cosiddetta devianza minorile è una costante della nostra società. Ogni anno nel nostro paese entrano nei carceri minorili più di 12.000 giovani. Soltanto a Napoli, tra il “Filangieri” e Nisida, il numero delle presenze è stabilmente fissato sulle 150-200 unità. Ma un discorso sulla delinquenza minorile che esulasse dalle condizioni dei giovani, dai loro problemi, sarebbe necessariamente incompleto e sommamente ingiusto. È necessario, quindi, andare a monte, conoscere e studiare le cause che provocano, generano e mantengono costantemente aperto questo flusso delinquenziale. 

Dobbiamo vedere, allora, chi sono questi giovani, dove abitano, come vivono, come studiano, quali sono le loro prospettive per un avvenire umano. Sul problema generale della situazione giovanile la documentazione è vasta. Giornali, riviste, dibattiti televisivi discutono continuamente sui problemi della famiglia, della scuola, del lavoro. E spesso dalla stampa la delinquenza viene presentata in modo falso e scandalistico, mettendo cioè più in evidenza il particolare agghiacciante o fosco che non le cause sociali che lo hanno determinato. 

Ritengo opportuno, quindi, offrire uno spaccato di questa gioventù “emarginata”, di questa gioventù che solo perché nasce nei fatiscenti quartieri del centro storico o negli alloggi-dormitorio della fascia suburbana, parte già svantaggiata nei riguardi di tanti altri giovani. La società li etichetta subito come delinquenti e li isola da sé, ritenendo così di assolvere un compito di difesa che è, invece, ipocrisia e pregiudizio di classe. 

Bisogna girare per i vicoli, far conoscenza con le famiglie, entrare nei loro “bassi” o arrampicarsi per rampe di scale smozzicate e penetrare nelle squallide soffitte, per cominciare a capire qualcosa. Molti giovani non solo non hanno mai avuto una stanzetta solo per loro, ma hanno dovuto dividere il letto con i genitori e poi, crescendo, con almeno un paio di fratelli. Nasce così un senso di frustrazione, di repulsa dell'ambiente familiare, nel quale si è legati soltanto da rapporti di sangue, a livello animalesco. D'altra parte, per una donna che ha cominciato a generare a 14-16 anni, sfornando quasi un figlio l'anno, è difficile che si creino, col figlio, dei rapporti che si elevino al di sopra del concetto di mera sopravvivenza, di puro benessere materiale. 

Una statistica recente parla di oltre 7000 “bassi”, nel centro storico. E l'alternativa ad essi è soltanto la 167, quartiere-ghetto privo di scuole e di strutture sociali di ogni tipo. Il ragazzo che nasce in questo contesto ha 50 probabilità su 100 di non terminare le scuole elementari. Doppi o tripli turni, disinteresse da parte dei genitori e insensibilità da parte degli insegnanti, determinerà in lui la decisione di abbandonare questa scuola che, concretamente, non gli offre nulla di valido o di alternativo. Inizia così l'avviamento precoce al lavoro. 

Vediamo ogni giorno decine e decine di ragazzini, che hanno anche meno dei 14 anni richiesti dalla legge, portare caffè, fare i garzoni dei macellai, dei salumieri, salendo e scendendo centinaia e centinaia di scale, con orari di lavoro quasi sempre superiori a quelli degli adulti. Il lavoro minorile non è tutelato; per questo ha ricevuto l'aggettivo di “nero”, ma tante volte si colora anche di rosso per via degli incidenti sul lavoro: è frequente la perdita di qualche arto, talvolta anche della vita. In questo caso si parlerà di “disgrazia”. E le paghe sono quelle che sono, dovute più alla “bontà” del cosiddetto “datore di lavoro” che a un senso elementare di giustizia. 

Qualche settimana fa un quotidiano cittadino riportava la notizia della cattura di un giovane scippatore da parte dei “falchi”, cattura sottolineata dagli applausi dei passanti. Ho conosciuto questo scippatore al “Filangieri”: è un ragazzetto timido, introverso, denutrito. Lavorava come garzone in un bar. La sua paga era di 12.000 lire a settimana. Mi chiedo: chi è più colpevole, lui o il suo “datore di lavoro”? Il ragazzo, a un certo punto, si accorge di essere sfruttato, comprende che il suo lavoro non serve a nulla se non a mantenerlo in uno “status” di dequalificazione cronico, e allora si ribella. Il furto, lo scippo, la rapina vanno visti in questa ottica che, se pure deformata, per il giovane diventa gratificante. Si accorge, cioè, che in poche ore riesce a realizzare quanto non riusciva a vedere in un anno intero di lavoro. Nessun dubbio che la scelta delinquenziale è un modo drammaticamente infantile, da immaturi, di affrontare e risolvere i problemi e le difficoltà del crescere verso l'età adulta, ma come pretendere scelte coscienti? 

Sono i deboli e i meno dotati che accettano una scelta di vita che li ridurrà a livelli di vita subumani, anche se avranno disponibilità di soldi maledetti. In questa luce, quanti minori potrebbero e dovrebbero venire assolti per incapacità di intendere e di volere! L'atto delinquenziale, infatti, è causato dalla incapacità del ragazzo a seguire il ritmo della sua crescita, per cui nel momento che avverte tale difficoltà, egli cerca di superarla accettando, senza essere capace di respingerla, l'occasione per affermare in modo distorto la sua personalità, per uscire dal senso di frustrazione in cui vive. A decidersi per questa scelta di vita, un peso determinante è dato dai condizionamenti esterni dei “mass-media” che non sanno proporre altro valore che quello di possedere delle cose, che propagandano il benessere ad ogni costo. Il furto di una motoretta o di una motocicletta è dovuto, al 90% dei casi, all'acquisita convinzione che cavalcare un mezzo con tracotanza per le vie della città sia segno di ricchezza, di potenza, di un raggiunto livello superiore. Sorgono così le bande di giovani. Si comincia col furto facile: il borseggio, l'autoradio prelevata dall'auto in sosta, lo scippo. Se le cose vanno bene, si passerà al furto d'appartamento e alla rapina. 

In quest'ultimo periodo è aumentato il numero dei minori con la pistola. Averla tra le mani è un fallace segno di potere, di dominio; in una parola, li fa sentire più forti, più uomini. Cioè, più vicini a quei figuri della malavita che per essi costituiscono un prototipo degno di ammirazione e di rispetto. E in tal modo, la rapina a mano armata spesso sfocia in una tragedia. Si ammazza con superficialità, senza rendersi conto della gravità della distruzione di una vita umana, talvolta solo per poche centinaia di migliaia di lire. 

Merita una riflessione a parte il caso di alcuni minori che per paura o per debolezza non riescono a darsi al furto. Essi, molto facilmente, entrano nel mondo torbido della prostituzione maschile, dapprima quasi per gioco o attratti da un facile guadagno che non offre pericoli; poi sempre più profondamente fino, talvolta, a inserirsi stabilmente nel terzo sesso. 

Da poco tempo, inoltre, è in aumento il numero dei giovani del sottoproletariato che cominciano a spacciare droga. Dallo spaccio all'uso personale il passo è breve, con risultati terrificanti. Si parla di circa 10.000 drogati a Napoli, la maggioranza dei quali è sui vent'anni. 

Abbiamo visto che la causa prima della delinquenza minorile è dunque costituita dalle condizioni della società e della famiglia, nella quale il ragazzo praticamente vive da “emarginato”. Una seconda causa è data dalle condizioni soggettive del minore: ragazzi che si portano dietro condizionamenti derivati dall'aver avuto genitori malati o violenti, o dal non averne avuti affatto, oppure dall'aver avuto modelli di vita talmente negativi da non riuscire a percepire la bontà di modelli alternativi, come nel caso delle bande che fanno della delinquenza il loro unico scopo di vita. 

La terza causa a infine costituita dalla occasionale spinta alla scelta delinquenziale, dovuta alle cause più sopra accennate (frustrazione nel lavoro “nero”, esempi di apparente benessere negli amici che rubano, ecc.). 

II giovane che abbiamo cercato di “fotografare” nelle pagine precedenti, è quello che, prima o poi, viene preso dalla Polizia o dai Carabinieri, viene condotto in Questura o in Caserma e infine viene tradotto in carcere. Talvolta questo giovane ha vissuto fuori casa per mesi e mesi, a causa di un litigio familiare o per una precisa scelta di libertà. Ha vissuto nel modo più completo l'arte di arrangiarsi, dormendo sui vagoni in sosta sui binari morti della Ferrovia o in casa di ricettatori o di prostitute. A seconda dei caratteri, giungono spauriti o altezzosi, ma dopo pochi giorni si inseriscono nella realtà del carcere. I prepotenti continuano a comandare e a farsi servire, creando una piccola “camorra”, temuta e rispettata; i più deboli diventano i “soggetti”, e devono curare la pulizia delle celle, rifare i letti, ecc.

La custodia preventiva “G. Filangieri” è situata nei locali di un vecchio monastero. Nonostante i continui lavori, spesso le mura trasudano acqua, l'aspetto generale è fatiscente e l'unico spazio in cui i ragazzi possono sgranchirsi ed esercitare un po' di sport è costituito da un angusto cortile. Pertanto la vita dei giovani reclusi si svolge prevalentemente nelle celle e nei corridoi antistanti. Dovrebbero esserci scuole o officine, ma sia le une che le altre funzionano a scartamento ridotto. Non ho mai visto ragazzi analfabeti (e ne entrano tanti) imparare a leggere e a scrivere durante la permanenza al “Filangieri”; circa, poi, le officine, quando funzionano, occupano i giovani in lavoretti in ferro battuto o simili, cosa che, una volta dimessi, sarà stata di nessuna utilità pratica. Altre attività supplementari, dovute a gruppi spontanei o a volontari, lasciano il tempo che trovano, e non hanno mai dato risultati degni di questo nome. 

In pratica, i giovani dequalificati che proprio nell'interno del carcere potrebbero trovare tempo e modo per una qualifica utile al momento della dimissione per reinserirsi con giovamento nella società, non trovano nella struttura nessun aiuto utile a conseguire una qualche specializzazione di lavoro. E ciò è motto triste. 

Abulia, quindi, in uno scorrere di giorni uno eguale all'altro. In questi si inserisce l'interrogatorio del giudice, le visite dei familiari, il colloquio con gli educatori o con la psicologa. Diversi ragazzi non hanno avvocato; le condizioni economiche dei familiari sono tali da non permettere questa spesa. L'avvocato d'ufficio, si e no, lo si vedrà soltanto al momento della causa. Per cui i più poveri sono anche i più abbandonati. Passano i mesi in attesa del processo e, quando arriva, spesso la sentenza si abbatte sul malcapitato più con spirito vendicativo che con intenzione di correggere, di aiutare. 

Una osservazione da “non addetto ai lavori”: credo che la funzione del giudice minorile dovrebbe essere soprattutto quella di prendere le parti del minore, di dargli coraggio, di difenderlo, di rimetterlo sulla giusta strada e non quella di condannare, talvolta con pene davvero sproporzionate che precluderanno per sempre la possibilità di un valido reinserimento nella società. Un po' meno di codice, un po' più di cuore. 

Molto spesso il minore accetta stoicamente la condanna: si sente un duro, un dritto, e se piangerà, lo farà soltanto di notte, soffocando le lacrime sul cuscino, attento a non farsi notare dai compagni di cella. Chi giunge al carcere per la prima volta, viene subito iniziato a tutto un rituale che va dai tatuaggi al dover subire le violenze degli anziani, violenze che vanno dai pestaggi gratuiti alle più raffinate perversioni sessuali alle quali volenti o nolenti, si deve in ogni modo sottostare. Il personale di custodia è quello che è: ha ricevuto una formazione prevalentemente tecnica, di stampo militare, per cui non è in grado, nella maggioranza dei casi, e non per cattiva volontà, di svolgere un'azione veramente rieducativa. Inoltre è sempre inferiore al numero ottimale richiesto, per cui è sottoposto a orari stressanti e in numero inferiore al bisogno. 

Un intero gruppo di ragazzi (trenta unità circa) viene spesso sorvegliato da uno solo di essi. Il compito degli “educatori” molto spesso si esaurisce net telefonare alle famiglie, sollecitare l'inizio di un processo, compilare informazioni positive. Manca la relazione interpersonale, capace, se condotta intelligentemente e con amore e mantenuta a lungo, di produrre buoni frutti. In queste condizioni il recupero del minore diventa estremamente difficile. Infatti il 70% di questi ragazzi tornerà fatalmente in carcere per la seconda, terza, quarta volta. Il motivo è facile a capirsi e non è certamente segno di pertinacia nel male o di incorreggibilità. 

Una volta scontata la pena e dimesso, il giovane si ritroverà di nuovo nelle medesime condizioni in cui si trovava prima: gli ostacoli non sono stati rimossi, le cause sono le identiche. A questo si aggiunge una aumentata capacità delinquenziale, conseguenza del contatto prolungato tra coetanei con maggiori esperienze di furti. In questa visuale non ha senso infierire con i cosiddetti “recidivi”, poiché sono tali per necessità, per fato, e non per precisa scelta. Dovremmo essere noi - società - a non far rientrare il minore nello stesso ambiente che ha lasciato all'entrata nel carcere. Invece l'ambiente è lo stesso, anzi peggiorato, perché avrà, il minore, maggiori difficoltà per reinserirsi nel mondo del lavoro e avrà acquistato una più profonda conoscenza delle tecniche dello scippo e dello scasso, che eseguirà con maggiore perizia e avvedutezza di prima. 

Punire perciò il minore che delinque tre o quattro volte, vuol dire riconoscere la nostra incapacità a modificare delle strutture che portano inevitabilmente alla devianza, la nostra non-volontà a rimuovere le cause che provocano la caduta. In questo senso si può affermare che il carcere minorile, così come è strutturato attualmente, è un organismo sorpassato e quindi inutile, almeno al 90%. Curare un ammalato di polmonite per poi reinserirlo in un ambiente gelido e senza possibilità di riscaldamento, è qualcosa che può essere definito sadismo. La medesima cosa facciamo noi con questi minori: ci fa più comodo scagliarci contro la delinquenza minorile che cercare di risolvere il problema delle abitazioni malsane, dei quartieri-ghetto, dell'evasione scolastica, dell’educazione a una paternità responsabile.

 La devianza minorile va curata a monte. Se si spendesse la metà dei soldi che servono per mantenere in piedi le strutture dei carceri minorili, per creare o moltiplicare scuole, edilizia popolare, centri sociali e sanitari, corsi di addestramento professionale, forse - e senza forse - le statistiche sulla delinquenza minorile subirebbero una notevole flessione. Se il ragazzo dimesso dal carcere venisse seguito, anche fuori, da una équipe di operatori sociali che gli assicurassero una comunità amica e fraterna al posto della famiglia sgretolata e inesistente e lo aiutassero prima a qualificarsi e poi a trovare un posto di lavoro equamente retribuito, certamente diminuirebbero di molto i recidivi. Invece il giovane dimesso incomincia a odiare, incomincia a capire che c'è un mondo (quello dei potenti, dei ricchi...) in antitesi, in contrapposizione, in eterno antagonismo col suo. Comincia a capire di essere uno sfruttato, uno schiavo. Con l'odio, matura un senso di ribellione, sordo, amaro, inesauribile. È l'inizio della lotta di classe, anche se non si comprende ancora questo nome, anche se non si sa ancora chiaramente quello che si vuole... 

Quindi il carcere non solo non risolve il problema, ma anzi lo amplifica e gli dà risonanze sempre più vaste e profonde. Questi giovani, che l'anno 2000 vedrà uomini, postulano nuove soluzioni che non si limitino a bloccare temporaneamente una certa attività delinquenziale, ma a rimuovere le cause con coraggio, con spirito di inventiva e di iniziativa. Concretezza e non utopia. Dicevamo all'inizio che la devianza minorile è una costante della nostra società. Dobbiamo decidere, con la nostra azione o con la nostra inerzia, se mantenere questa costante, elevarla, abbassarla o farla scomparire del tutto. I giovani di oggi, gli uomini di domani, ci giudicheranno su questo. 

Ernesto Santucci S.J. 

Comunicazione presentata al Convegno “Amministrazione della giustizia e difesa dell'ordine democratico”, indetto dalla Regione Campania (Napoli - Maschio Angioino, 17 dic. 1977).

Caro Sindaco

 

Caro Sindaco, uno di noi già ti ha scritto una volta, ma evidentemente la lettera non è stata letta da te. Sarà passata tra le mani di uno dei tuoi segretari, il quale avrà creduto opportuno non fartela leggere oppure addirittura di cestinarla. D'altra parte, lettere come quella te ne arriveranno a centinaia: gente che cerca un posto di lavoro, gente che non sa più a quale santo raccomandarsi per andare avanti. Perciò noi ora vorremmo rivolgerci a te con questa lettera aperta perché anche altri sappiano, e vorremmo che ci leggessero il Prefetto e il Cardinale, il Presidente della Regione e quello della Provincia, gli assessori e i politici tutti, in modo che qualcosa o qualcuno si muova anche per noi, gli ultimi. 

Chi siamo. Siamo un gruppo di giovani, dai sedici ai ventitré anni. Ci lega un destino comune. Le nostre famiglie non sono mai esistite oppure si sono dissolte ben presto. Alcuni di noi non hanno mai conosciuto padre o madre e tante volte ci tocca ancora arrossire quando ci chiedono, negli uffici pubblici, la paternità, e noi non sappiamo rispondere e ci guardano come se fossimo colpevoli chissà di quale grave delitto. Non abbiamo un ricordo gradito di quei pochi mesi o anni che abbiamo trascorso in famiglia: siamo stati sfruttati, avviati a un precoce lavoro minorile e raramente ci è stato dato amore e comprensione. 

Siamo stati rinchiusi in istituti, collegi, opere pie. Alcuni di noi avevano pochi mesi o pochi anni. Trattati come oggetti, talvolta scomodi, si è provveduto a mantenerci appena in vita, dandoci quel tanto di cibo per non morire di fame e quel tanto di istruzione per non rimanere analfabeti. Spesso eravamo puniti in modo disumano per piccole infrazioni al regolamento. In ginocchio per ore con le braccia in alto o costretti a strisciare sotto un tavolino oppure rapati a zero. E forse proprio allora abbiamo imparato a mentire, ad essere falsi, a tradire un amico per un pezzo di pane o una carezza. I brevi ritorni a casa erano un inferno e l'istituto ci sembrava qualcosa di eccezionale, di desiderabile. Non ci accorgevamo di subire un lento ma inesorabile processo di spersonalizzazione, che tendevamo a deresponsabilizzarci in tutto e per tutto, che diventavamo rotelline di uno spaventoso ingranaggio, tanto che ancora adesso ne subiamo le conseguenze. 

Se siamo diventati apatici, abulici, se la nostra volontà ogni tanto si blocca, se ci rassegniamo facilmente di fronte a situazioni aberranti, se non abbiamo il coraggio di reagire, di andare avanti ad ogni costo, è perché siamo i prodotti finiti di questa industria massificante del collegio e dell'istituto, che continuano, ogni anno, a sfornare gente disadattata come noi. Ma è stata l'istituzione a disadattarci, non siamo stati noi a scegliere questa esperienza disumana e disumanizzante. In questi inferni dei vivi dove voi, autorità, con tanta superficialità ci gettate, senza nulla sapere e nulla capire, noi siamo andati avanti per anni ed anni. E poi siamo passati negli istituti di rieducazione. Cosa c'era da rieducare? Forse le deformazioni subite in precedenza? Eravamo “discoli”, eravamo ragazzi “traviati”, e la società non trovava di meglio che continuare a isolarci, a tenerci da parte. 

Il discorso si fa sempre più spiacevole, ma non possiamo omettere niente: sarebbe slealtà verso tanti ragazzi che ancora vegetano negli istituti. Lì abbiamo conosciuto il sesso in modo distorto e alcuni di noi ancora hanno piaghe che stentano a rimarginarsi. L'amico che si intrufolava nel letto, nel silenzio della camerata; le carezze, gli abbracci non mai provati prima, il rapporto accettato passivamente come una prova d'affetto e poi ricambiato perché sembrava che almeno qualcuno ci voleva bene. Siamo stati, contemporaneamente, vittime e carnefici e non ci siamo resi conto di far male se non quando sono arrivate le punizioni, spietate e repressive. Ma mai nessuno ci ha spiegato perché fosse un male cercare e dare quell'affetto di cui sentivamo tanto bisogno. E nelle brevi parentesi di libertà, sia quando eravamo accolti dai parenti durante le cosiddette “festività”, sia quando ce le procuravamo da noi stessi con la fuga, tante volte per poterci comperare un oggetto utile o dilettevole, abbiamo rubato. Scippo o borseggio, furto di auto o di appartamento, qui conta poco. 

Quello che vogliamo dire è che sempre o quasi sempre, siamo finiti in carcere. Certo, il quattordicenne che ruba per comprarsi una maglietta o un blu jeans è un grave pericolo per la società e va punito in modo esemplare. Mesi e mesi al “Filangieri”, per qualcuno anche anni, senza che nessuno ti venga mai a trovare, senza ricevere mai una lettera, vestito con i panni del “governo”, costretto a passare ore ed ore senza far nulla in un cortile poco più grande di una gabbia, in condizioni sanitarie che a stento scongiurano una epidemia (ma la scabbia ed i pidocchi sono compagni abituali). E poi, una volta l'anno, la carnevalata dell'Epifania, quando i giudici e il vescovo ti vengono a far visita e allora tutto il carcere viene ripitturato e si è costretti ad indossare gli abiti migliori, perché “loro” se ne devono andare persuasi che noi, in fondo, stiamo benissimo e siamo soltanto degli ingrati senza cuore se osiamo lamentarci.

E ancora, il periodo estivo in cui, dal direttore al cappellano fino alla psicologa e all'assistente sociale, tutti vanno beatamente a farsi un mese o due di vacanze, e noi restiamo più trascurati, più sporchi, più disgraziati che mai. 

Ecco che siamo. Gente poco raccomandabile, gente con la fedina penale sporca, delinquenti, “mariuoli”. Se siamo riuniti, non lo siamo in una associazione a delinquere, ma perché un prete, padre Santucci, ci ha raccolti là dove più in basso non potevamo andare e ci ha dato un tetto, ma soprattutto amore e speranza. 

Da dove veniamo. In parte te lo abbiamo già detto. Dagli istituti, dai collegi, dalle case di rieducazione, dai carceri. Vorremmo ora aggiungere: dalla strada, dalla Ferrovia. Dalla strada. C'è una legge, voluta dai politici per demagogia, che a diciotto anni ci fa tutti maggiorenni. E per il giovane che è in un istituto, allora si spalancano le porte. Per forza. Per forza te ne devi andare. Dove, se non ho casa, se non ho famiglia? A noi non importa, dice l'istituto. A noi importa osservare la legge che ci dice che ormai tu sei maggiorenne e qui non puoi più stare. Arrangiati. Se vuoi, ti daremo un pezzo di carta, presentati al dormitorio pubblico e lì avrai un letto e un piatto di minestra. 

Noi abbiamo obiettato: al dormitorio non ci vogliamo andare; siamo giovani e al dormitorio ci sono i vecchi, i falliti, quelli ai quali ormai la vita non ha più nulla da dare. Noi invece siamo giovani, vogliamo ancora credere nella vita. Ma la porta dell'istituto o del pensionato giovanile si chiude alle nostre spalle. Loro hanno la legge dalla loro parte, non importa se quel pensionato ha venti posti letto e vi restano soltanto tre ragazzi. Tu hai diciotto anni e devi sparire. Hai già troppo abusato della pubblica assistenza, hai già troppo sfruttato il sistema. 

E allora non resta che la Ferrovia. Ci siamo passati tutti. Nello scalo di Gianturco abbiamo trovato l'alloggio gratuito, abbiamo trascorso notti e notti tormentati dal freddo, a stento coperti dalle tendine che strappavamo ai finestrini. Eravamo tanti che a sera si disputavano un posto per dormire, eravamo troppi. Tante volte il nostro sonno veniva interrotto dalla Polfer: ci ammonivano, ci portavano in questura a continuare il nostro sonno tormentato, ma non ci suggerivano nessuna soluzione, se non delle generiche minacce.

Alcuni di noi, in questo modo, non hanno visto un letto per mesi e anche per anni. E quando avevamo fame, ci siamo ricordati che il nostro corpo era desiderato da individui diversi da noi, e lo abbiamo venduto per poche migliaia di lire. Era l'unica cosa che potevamo fare e l'abbiamo fatta. Se le prime volte provavamo una vergogna da morire, poi ci abbiamo fatto il callo. Ci sono tanti, è vero, che lo fanno per vizio, ma è egualmente vero che qui a Napoli moltissimi lo fanno per mangiare. 

Cosa facciamo. Tanti di noi sono arrivati alla comunità alloggio di Padre Santucci con i soli vestiti che avevano addosso, con tanta fame e con tanta rabbia in corpo. Abbiamo trovato un tetto, un letto e qualcosa da mangiare. Ci siamo guardati attorno, dapprima con sospetto, forse, poi con meraviglia. Abbiamo accettato questa nuova realtà, che sappiamo passeggera e non definitiva. Ma sono spesso i vicini che non ci accettano ancora, che ci ricordano chi siamo e da dove veniamo, che ci guardano con sospetto per le scale, che se succede qualcosa nel palazzo, sono pronti a dar subito la colpa a noi. 

E allora ecco che vogliamo diventare come gli altri, vogliamo crearci un avvenire, vogliamo lavorare. Lavorare. Ma lavorare non è facile. Abbiamo lavorato e lavoriamo nei bar (a 19 anni!) per diecimila lire alla settimana; abbiamo lavorato e lavoriamo nei ristoranti come lavapiatti per 4.000/5.000 lire per notte. Sanno chi siamo e ci sfruttano disonestamente e noi non possiamo parlare. Niente libretto di lavoro e se non mi soddisfi più te ne vai immediatamente, senza preavviso, tanto ci sono decine e decine di ragazzi che vogliono fare il tuo lavoro. Tante e tante volte nasce in noi una collera sorda: lavorare e lavorare soltanto per poter mangiare e comprarti di che coprirti. 

Ma anch'io voglio vivere la mia vita! Anch'io voglio formarmi una famiglia, voglio andare a vivere in una casa che sia mia... Ma come? Sopraggiungono momenti di sconforto, momenti in cui ti accorgi che non sarai mai come gli altri, che sei un segnato per sempre, che la società ti respinge, ti tiene a bada, ti emargina in modo definitivo. Torni la sera (o a notte fonda), stanco, con le ossa rotte, forse anche affamato. E non ti resta che dimenticare tutto nel sonno per ricominciare il giorno dopo questa vita da cani, senza speranza, senza luce. 

È capitato ad alcuni di noi di giungere ad uno stato di amarezza tale da tentare il suicidio, e non una volta sola. Ma era davvero un tentato suicidio oppure un tentativo di omicidio da parte di una società spietata e crudele? Abbiamo capito che quella non era una soluzione, ma che dovevamo reagire, lottare, disposti a tutto osare pur di prenderci il posto che ci compete per giustizia. 

Ed ecco che veniamo alla conclusione di questa lettera. Cosa vogliamo. Vogliamo giustizia. Vogliamo un lavoro onesto, equamente retribuito che ci permetta di guardare con speranza al nostro futuro. Ci dicono: ma non hanno lavoro gli sposati, quelli che hanno figli a carico, e voi cosa pretendete? Ma è giusto questo modo di risponderci? Cosa dovremmo fare, aspettare? Ma alcuni tra noi sono già grandi, hanno già fatto lt servizio militare. Quanti altri anni dovremo aspettare prima di avere una sistemazione adeguata, prima di poter cominciare a pensare a formarci una famiglia? 

Abbiamo fretta. Non ce la sentiamo più di aspettare. E dietro a noi ci sono decine e decine di altri giovani che forse ora sono alla ferrovia o a Poggioreale, che si stanno prostituendo o che stanno rubando solo perché vedono le altre strade sbarrate per loro. 

Noi abbiamo ancora un brandello di fiducia negli uomini. Non ce lo distruggano proprio quelle persone in cui crediamo ancora, nonostante tutto. 

Attendiamo una risposta da te e da tutti gli uomini di buona volontà. Ma vogliamo una risposta concreta e non buone parole. Di queste ne abbiamo sentite già tante e ne abbiamo piene le tasche. 


Padre Ernesto Santucci s.j.